martedì 19 febbraio 2008

Politiche Bioetiche fra natura e libertà

di Filippo Magni*
Legge 194 e dintorni. È quasi banale constatare come il liberalismo venga predicato tanto ma praticato poco proprio là dove servirebbe di più. Visti i tempi è probabile che anche per il futuro ci sia da attendere qualcosa di buono più dalla magistratura che dalla politica. L'offensiva di stampa contro la legge sull'aborto degli ultimi tempi ne è un segnale significativo. Peggio ancora, probabilmente, sarà nella campagna elettorale
Non è una novità che nella vita civile di un paese possono accadere cose che vanno in una direzione contraria. Né è una novità che accadano in Italia in relazione a questioni che riguardano le tecniche di intervento sulla vita umana.
Da una parte il provvedimento della Giunta regionale della Lombardia che riduce il termine per praticare l'aborto terapeutico negli ospedali della regione da 24 a 22 settimane e 3 giorni. La legge 194 prevede che l'aborto terapeutico (l'aborto nei casi in cui è in pericolo la vita della madre) sia praticabile oltre i 90 giorni (termine fissato per l'aborto volontario) ma senza precisare un limite. Quello assunto dai medici è la 24° settimana, perché intorno a questo periodo il feto acquista la capacità di vita autonoma. Il provvedimento della Giunta Formigoni viene giustificato col fatto che gli sviluppi delle tecniche di sostegno vitale consentono di abbassare la soglia della capacità di vita autonoma. (Sulla stessa linea i direttori delle cliniche ginecologiche romane rivendicano l'obbligo professionale di rianimare un feto nato vivo da un aborto terapeutico, anche contro la volontà della madre e il rischio di gravi malformazione del futuro bambino).
Dall'altra, la sentenza del Tar del Lazio che ha considerato illegittime le linee guida ministeriali che accompagnano la legge 40 sulla procreazione assistita e ha posto il problema della legittimità costituzionale della legge. Le linee guida rendono più restrittivo il contenuto di una legge già molto restrittiva, non consentendo la diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni che verranno impiantati nell'utero della madre e prevedendo l'obbligo di trasferimento in utero di tutti gli embrioni prodotti dalla tecnica di fecondazione assistita (ridotti dalla legge a 3), al fine di evitare la loro crioconservazione e quindi l'utilizzo a scopi di ricerca. Il fine in entrambi i casi è quello di evitare l'aborto selettivo degli embrioni prodotti (o perché geneticamente malati o perché destinati alla ricerca). La sentenza del Tar richiede ora nuove linee Guida; il ministro Turco le stava predisponendo.Visti i tempi è probabile che anche per il futuro ci sia da attendere qualcosa di buono più dalla magistratura che dalla politica. Più che una previsione è un timore, ma pare fondato. L'offensiva di stampa contro la legge sull'aborto degli ultimi tempi ne è un segnale significativo. Peggio ancora, probabilmente, sarà nella campagna elettorale.
Solitamente queste restrizioni vengono invocate e attuate sulla base di un argomento sbandierato da più parti: che sia, cioè, "contro natura" fare altrimenti. L'argomento presuppone che è dalla natura, da ciò che è "naturale", che dobbiamo trarre indicazioni su come agire; e la natura è pensata come avente un ordine e delle leggi proprie, che l'uomo deve rispettare, sia che queste leggi e questo ordine siano intesi come voluti da Dio (la posizione della chiesa cattolica), sia che siano assunti senza un necessario riferimento a entità trascendenti (la posizione di certi laici impegnati in nuove crociate).In questa accezione, il concetto di legge viene interpretato in termini finalistici e antropomorfici: la legge di natura è, cioè, come la legge civile, una prescrizione che ci indica cosa si deve fare e rimanda ad un legislatore (Dio appunto) che la pone. Come ogni legge, anche questa legge va dunque rispettata: l'ordine presente in natura impone di tutelare l'inizio "naturale" della vita (il concepimento o la capacità di vita autonoma, a seconda dei casi) così come il modo "naturale" di avere una gravidanza (oppure ancora l'unione affettiva "naturale" o la fine "naturale" della vita, e così via).
Questo argomento è tuttavia discutibile e lungi dal trovare una condivisione generale. Nella storia della cultura occidentale non c'è mai stato accordo sull'esistenza di leggi di natura, e nemmeno su cosa queste leggi ci comandino. Un accordo pare esserci, in realtà, sull'esistenza di un altro tipo di leggi di natura, quelle scientifiche. Ma sono leggi di carattere completamente diverso: sono non-antropomorfe, non rimandano a un legislatore e non sono prescrizioni che devono essere rispettate; sono piuttosto descrizioni generali che, anziché dirci cosa fare, spiegano e prevedono l'accadere dei fenomeni. Non sono leggi di carattere finalistico, ma deterministico (o tutt'al più probabilistico): l'ordine che si riscontra in natura è di questo tipo.
Un filosofo dell'Ottocento, John Stuart Mill ha forse meglio di tutti sottolineato la difficoltà di trarre indicazioni su cosa fare dall'ambiguo concetto di natura: "la dottrina che l'uomo dovrebbe seguire la natura - scrive Mill a p. 51 dell'edizione Feltrinelli dei Saggi sulla religione - , o, in altre parole, dovrebbe erigere a modello delle proprie azioni volontarie il corso spontaneo delle cose, è [...] irrazionale e immorale. Irrazionale perché tutte le azioni umane, quali che esse siano, consistono nell'alterare il corso spontaneo della natura, e tutte le azioni utili consistono nel migliorarlo. Immorale per il motivo che - essendo il corso dei fenomeni pieno di azioni le quali, quando vengono commesse dagli uomini, risultano degne del massimo aborrimento - chiunque tentasse di imitare nel proprio modo di agire il corso naturale delle cose, sarebbe universalmente considerato e riconosciuto come il più malvagio degli uomini". È l'uomo che pone dei fini alla natura, non la natura all'uomo.
Questi argomenti non sono filosoficamente conclusivi contro l'esistenza di un ordine finalistico della natura, né tanto meno contro l'esistenza di Dio (è difficile che un argomento filosofico lo sia): in ultima istanza si può sempre fare ricorso alla fede, a un piano diverso da quello razionale. Tuttavia anche se non conclusivi, hanno un grado di plausibilità tale da suggerire che sarebbe opportuna una maggiore cautela nel sostenere che certi comportamenti sono "contro natura".
A questa considerazione se ne deve aggiungere un'altra Pur senza entrare nella discussione delle posizioni di chi considera certe pratiche moralmente illecite o di chi le considera moralmente lecite, si deve ammettere che entrambe le posizioni hanno ragioni dotate di una certa plausibilità. Queste ragioni ci sono e sono largamente riconosciute: da una parte la tutela della vita di ogni essere vivente, dall'altra il rispetto della libertà di scelta della madre, la tutela graduale della vita, e così via. L'unione delle due considerazioni richiede una seconda cautela: quella di limitare all'ambito morale la condanna di chi la pensa diversamente, e non entrare nell'ambito giuridico: si biasimi pure chi non condivide il modo "naturale" di considerare l'inizio della vita o di avere una gravidanza (o anche, più in generale, di unirsi affettivamente o di decidere le modalità con cui terminare la propria vita), ma non gli si vieti giuridicamente di agire secondo il modo che ritiene più appropriato. Si riconosca, cioè, a ognuno la possibilità giuridica di decidere come comportarsi in questi ambiti, comunque lo si giudichi, e magari lo si aiuti anche con le informazioni e il sostegno necessari. È un principio semplice, di carattere liberale, e richiede leggi permissive; lo è la legge 194 sull'aborto, non lo è legge 40 sulla fecondazione assistita. È quasi banale constatare come il liberalismo venga predicato tanto ma praticato poco proprio là dove servirebbe di più.
* Docente di Bioetica Università di Pavia - Sinistra Democratica Prato

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